La tecnologia medico scientifica consente oggi importanti possibilità di intervento sul corpo e sulla vita dell’uomo, ponendolo di fronte a nuove scelte con profonde implicazioni esistenziali. Di qui l’esigenza di una rinnovata riflessione sul bilanciamento dei valori primari protetti a livello costituzionale: la vita e la dignità della persona malata o morente, che oggi è generalmente consegnata ai luoghi di cura.
L’impostazione personologica della nostra Costituzione ha consentito in questi decenni di declinare la tutela dei diritti che appartengono all’uomo, nella sua dimensione privata e sociale, e del loro divenire nell’ambito delle varie dimensioni esistenziali, oggi sempre più complesse e in parte difficilmente governabili.
In questo contesto la paura profonda che resta dentro di noi è quella di perdere il controllo di sé, di non essere ad un certo punto più “padroni” della nostra esistenza.
S. Rodotà si chiede “di chi è il corpo? Della persona interessata, della sua cerchia familiare, di un Dio che l’ha donato, di una natura che lo vuole inviolabile, di un potere sociale che in mille modi se ne impadronisce, di un medico o di un magistrato che ne stabiliscono il destino?” (in La vita e le regole. Tra diritto e non diritto, Feltrinelli, 2006)
La biotecnologia oggi può intervenire in tutte le fasi della vita, non solo quella terminale: basti pensare ai test genetici prenatali, ai test predittivi sulla predisposizione allo sviluppo di determinate malattie, all’interruzione della gravidanza, alla procreazione medicalmente assistita e alla fecondazione post mortem, ai farmaci salva vita, ai potenti mezzi diagnostici, alla chirurgia, ai trapianti, agli xenotrapianti ecc.
Questo ventaglio di possibilità ha due implicazioni: una etica valoriale (ciò che è possibile è anche sempre giusto?) e una antropologico-esistenziale (quali le conseguenze sul mio corpo e sulla mia psiche? Quali i costi e i limiti all’evoluzione della mia vita che quella scelta comporta?). La risposta del singolo è ovviamente interna al suo mondo culturale, religioso, affettivo-relazionale. Ma esiste anche un ambito necessario di normazione pubblica, perché la relazione di cura e/o di assistenza e accompagnamento terminale implica la relazione tra più soggetti e l’intervento di istituzioni e professionalità.
La l. n. 219/2017 afferma il diritto di scelta del morente consapevole, che può rifiutare le cure, essere supportato mediante l’intervento palliativo e accompagnato fino al momento del sopraggiungere naturale della morte. Afferma anche il diritto di ogni persona (capace di agire) di dichiarare anticipatamente la propria volontà, per il momento in cui sopraggiungerà l’inconsapevolezza, mediante le Disposizioni Anticipate di Trattamento.
Se la malattia è già in atto, la legge offre infine la possibilità di una pianificazione della cura, che sarà vincolante anche nel momento in cui la consapevolezza verrà meno.
Se quindi il progresso biomedico consente di prolungare la vita anche in situazioni estreme e/o di convivere a lungo con situazioni di cronicità, oggi il malato può scegliere se riappropriarsi o meno di una dimensione naturale del suo tempo di vita, rifiutando in tutto o in parte i trattamenti proposti.
La pratica eutanasica si pone, invece, su un piano diverso: non si chiede al medico di astenersi da un trattamento e di curare i sintomi e il dolore che restano; si chiede al medico di partecipare alla realizzazione dell’intento di porre fine alla nostra vita, anticipando il momento della nostra morte “naturale”.
Eutanasia è, infatti, un atto posto in essere su indicazione esplicita e volontaria del malato che intende abbreviare il corso della sua vita, e attraverso il quale si determina come effetto diretto la sua morte.
L’eutanasia attiva volontaria è altrimenti definita sul piano giuridico come “omicidio del consenziente”.
Alla base della richiesta di eutanasia vi sarebbe una malattia inguaribile a esito letale gravemente invalidante, e la volontà della persona di porre fine con la morte ad una condizione che considera non più tollerabile.
Una malattia può, infatti, determinare infermità importanti sia sul piano fisico che psichico; il controllo del dolore e dei vari sintomi può non eliminare o diminuire sufficientemente la sofferenza esistenziale: in questo contesto, la persona può non riuscire ad attribuire un senso alla sua vita.
Molto diversa sul piano etico e giuridico è la c.d. l’eutanasia “non richiesta”, ovvero la morte procurata per preteso “fine altruistico” in assenza di una domanda consapevole dell’interessato, che per la sua condizione non è in grado di porla: neonati portatori di gravi disabilità, persone che vivono in stato di incoscienza irreversibile, che non hanno sottoscritto una DAT e delle quali non sia ricostruibile la volontà, ecc. In questi casi la morte procurata è e resta omicidio.
Sul piano giuridico il dibattito sull’ammissibilità o meno dell’eutanasia attiva volontaria attiene a due aspetti: la configurabilità costituzionale del relativo diritto e l’individuazione di chi “deve” mettere in pratica l’atto eutanasico.
I sostenitori dell’ammissibilità ritengono il principio dell’inviolabilità della vita umana bilanciabile con quello della dignità della persona, entrambi di rango costituzionale: espressione di questo bilanciamento sarebbe lo stesso diritto al rifiuto delle cure, anche salvavita.
La vita, infatti, è sempre giuridicamente indisponibile se si tratta della vita altrui (di qui l’obbligo dell’istituzione pubblica di proteggere la vita dagli attacchi degli altri), ma tale non sarebbe invece quando si tratti di decidere sulla propria vita.
Nella fase terminale dell’esistenza, inoltre, il diritto alla vita includerebbe anche il diritto alla “propria morte”: il “diritto a morire con dignità” non sarebbe altro che la richiesta di vivere l’ultima fase della vita nel rispetto profondo della persona, delle sue convinzioni, dei suoi valori, della sua umana fragilità.
In positivo, il diritto di scegliere la soluzione eutanasica e quindi “in che modo e quando porre fine alla propria esistenza in una situazione di malattia terminale e sofferenza” avrebbe copertura costituzionale: l’art. 32 Cost. la l. n. 219/2017, il diritto di libertà ex art. 13 Cost. e la libertà di coscienza per la quale ogni persona ex art. 19 Cost. può agire in conformità al proprio credo “laico”, cioè alle proprie convinzioni.
In sostanza, si afferma quel prevalere della vita biografica su quella biologica che sarebbe alla base della stessa legge sulla relazione terapeutica (l. n. 219/2017).
La dignità della persona affermata come valore primario dall’art. 1 della Costituzione Europea (c.d. Carta di Nizza) rafforzerebbe e qualificherebbe tutti gli altri beni costituzionali protetti, a vantaggio della singolarità e irriducibilità della persona e della sua storia.
Non si tratterebbe di distinguere sul piano oggettivo tra vita degna di essere vissuta e vita non degna di essere vissuta: ogni vita è degna perché appunto vita.
Ma la dimensione soggettiva della coscienza e dell’autodeterminazione individuale potrebbe consentire l’accesso ad un giudizio di valore che anticipi la fine della vita, facendo leva sul senso che l’esperienza di malattia terminale assume per quel malato.
Si esclude in ogni caso la costituzionalità di un diritto all’aiuto medico al morire per motivi meramente esistenziali, non legati alla presenza attuale di una malattia grave, fonte di particolari sofferenze psico-fisiche.
Di qui l’affermazione che una legge sull’eutanasia dovrebbe definire in termini rigorosi le condizioni di accesso, generalmente individuate nel:
a) grave ed irreversibile stato patologico accertato;
b) intollerabile stato di sofferenza fisica e/o psicologica;
c) volontà autentica ed accertata come tale della persona interessata.
Sul primo punto si rinviene sovente il tentativo di una sua qualificazione puntuale: “presenza di un grave traumatismo o di una grave ed inguaribile malattia in atto o di loro esiti o di una associazione delle predette situazioni, da cui derivano un’irreversibile perdita attuale o imminente delle capacità funzionali e una persistente sofferenza fisica o psicologica intollerabile per la persona, refrattaria agli appropriati trattamenti terapeutici accettabili dalla stessa” (Documento di sintesi Gruppo di lavoro presso Università degli Studi di Trento).
Il “dovere di contribuire alla morte altrui”, che ricade specularmente sul soggetto cui è normalmente attribuita la cura del malato, concreterebbe sicuramente una “rottura” della struttura relazionale della relazione terapeutica nella sua dimensione ordinaria.
Tuttavia il divieto di uccidere, sancito nell’ordinamento e punito penalmente, sarebbe relativo: riconosciuto il diritto del paziente terminale a decidere della sua morte, l’atto eutanasico sarebbe ammesso come esercizio del dovere professionale di dare compimento alla libera volontà espressa dal paziente.
Quindi il professionista non commetterebbe un atto antigiuridico, perché mosso non dalla volontà di uccidere un altro uomo (omicidio), ma di dar seguito alla sua richiesta di morte prematura (ovviamente nei limiti e alle condizioni di legge).
I fautori dell’eutanasia concordano in genere sulla necessità della supervisione e dell’intervento del medico, il cui apporto è considerato fondamentale, a partire dalla formazione della volontà del paziente, fino alla somministrazione del farmaco e alla certificazione della morte.
In ogni caso essi ritengono indispensabile la previsione di un diritto di obiezione di coscienza (richiamandosi alle procedure previste nella l. n. 394/1978 sull’IVG interruzione volontaria della gravidanza).
La previsione della possibilità di obiezione consentirebbe di superare il concetto di “dovere”, qualificandosi la posizione del medico come “possibilità di potersi liberamente formare un proprio convincimento interiore circa l’atteggiamento da tenere nel caso in cui venisse richiesto di un atto di eutanasia” (D. Neri, La porta è sempre aperta? Osservazioni su dignità del morire, diritto ed etica medica, in Bioetica, 1999).
Rilevano infine che il ricorso all’eutanasia deve essere limitato e rigidamente circoscritto, perché solo in questo modo può essere costituzionalmente conforme: malati gravi e inguaribili, in fase terminale irreversibile con una situazione di grave infermità e sofferenza. Si tratterebbe perciò di un aiuto non tanto alla morte, ma nella morte, una sorta di speciale autorizzazione in casi limite.
Le critiche all’introduzione del diritto all’eutanasia, seppur rigidamente normato, si basano a loro volta su varie argomentazioni socio-giuridiche.
Anzitutto il timore della c.d. slippery slope, o china scivolosa: il fenomeno per cui, introdotto un principio nell’ambito di una situazione moralmente accettabile, si tende poi a scivolare verso qualcos’altro, che invece è moralmente inaccettabile.
Introdotto, quindi, il principio che possa esservi un aiuto medico al morire, questo potrebbe poi essere esteso a situazioni di sofferenza “esistenziale”, più che di malattia terminale, assolvendo la società dalla fatica e dai costi di un intervento supportivo efficace della fragilità, perché la vita possa tornare ad essere desiderata e vissuta.
Per i detrattori l’eutanasia intesa come aiuto medico a morire in presenza di situazioni di sofferenza fisico-psichica sarebbe comunque incostituzionale, perché contrastante con il diritto alla vita e con il dovere dello Stato di proteggere le persone più deboli e vulnerabili, proprio alla luce del rischio di abuso (nella pratica le richieste di aiuto a morire diverrebbero difficilmente controllabili) e del rischio di un allargamento progressivo delle fattispecie interessate, sulla base di “un movente pietistico”, che potrebbe condurre a risultati quasi opposti alla tutela della dignità della persona e della protezione delle sue fragilità.
Queste preoccupazioni sono argomentate traendo esempi dall’esperienza storica dell’evoluzione legislativa di alcuni Stati europei.
La legge belga sull’eutanasia introdotta nel maggio 2002 è stata poi successivamente modificata nel 2014, includendo la possibilità di applicazione dell’eutanasia al minore dotato di capacità di discernimento (capacità che viene valutata da uno psicologo o da uno psichiatra infantile). Il minore deve trovarsi in una situazione di “costante ed insopportabile sofferenza fisica” che causi la morte a breve termine. Per i minori non è invece ammessa la rilevanza della sofferenza mentale. La legge non prevede alcuna età minima, e si rimette alla valutazione della capacità di discernimento da attuare di volta in volta.
Questa estensione dell’atto eutanasico al minore è stata giudicata legittima dalla Corte Costituzionale Belga.
Anche l’Olanda prevede la possibilità di applicare l’eutanasia ai minori.
Altre argomentazioni derivano dalla pratica clinica: l’istanza eutanasica è molto rara, mentre è alta la richiesta di essere sollevati dal dolore e accompagnati adeguatamente nella fase terminale dell’esistenza. La letteratura medica distingue infatti tra il “desiderio” (attitude toward) e la vera e propria “richiesta esplicita” (request for). I desideri del malato sofferente sono infatti fluttuanti ed ambivalenti, e paura e idea del possibile dolore futuro possono influenzare gli stati mentali.
Non vi sarebbe, quindi, una base sociale che renda indispensabile una legge sull’eutanasia.
Indispensabile è invece praticare la c.d. dignity therapy: un intervento individualizzato psicoterapico, con l’obiettivo di far emergere dal paziente gli elementi di preoccupazione legati alla malattia, le possibilità pratiche e prospettiche di conservare la consistenza personale.
La richiesta di eutanasia dipende in modo sostanziale dalla perdita di significato della vita, dalla prospettiva di disperazione esistenziale e dalla sensazione di perdita di dignità della propria persona, e queste percezioni possono essere influenzate significativamente dall’approccio del curante.
Non ultime le difficoltà pratiche di attuazione di un simile diritto, che presuppone la capacità del soggetto di decidere in modo volontario il suo bene: la fragilità della situazione del morente rende instabili e labili le sue richieste e individuare una volontà certa, libera e univoca presenta una grande complessità, per la necessità di non valorizzare situazioni e sintomi depressivi, magari legati al sentirsi un peso per gli altri con conseguente perdita del ruolo, o legati alla scarsa coesione della famiglia.
Ma anche la percezione del medico deve essere adeguata e non frutto di un basso livello di addestramento psicologico, di impressioni soggettive, di suoi convincimenti ideologico culturali ecc.
Oggi inoltre il codice di deontologia medica (art. 17) esclude che il medico possa, anche su richiesta del paziente, effettuare o favorire atti direttamente finalizzati a provocare la morte.
La l. n. 219/2017, all’art. 1 comma 6, nel prevedere che il paziente non può chiedere al medico prestazioni contrarie alla legge alla deontologia professionale e alle buone pratiche clinico assistenziali, ha valorizzato il ruolo della deontologia medica quale fonte di disciplina dei diritti e dei doveri del medico nella relazione terapeutica, anche terminale.
Sul punto la classe medica si è recentemente espressa in modo negativo, non intendendo assumersi la responsabilità di compartecipare alla morte del paziente, anche se da lui consapevolmente richiesta.
Tale sarebbe la linea emersa all’esito del lavoro della Consulta di Bioetica interna alla Federazione nazionale degli ordini dei medici (Fnomceo): il medico “non compirà l'atto fisico di somministrare la morte". Qualora il legislatore intenda perseguire la strada del riconoscimento del diritto alla morte anticipata, la classe medica richiede che l’esecuzione sia affidata ad altra e diversa categoria professionale.
Né è ritenuto sufficiente prevedere l’istituto dell’obiezione di coscienza: l’obiezione è un comportamento individuale che consente al singolo medico di sottrarsi alla collaborazione eutanasica per convinzioni etiche personali, ma non risolve il problema del rapporto tra la categoria professionale medica e il suo ruolo sia sociale che all’interno delle istituzioni sanitarie.
Nelle ultime settimane anche La World Medical Association (WMA), che rappresenta le associazioni mediche nazionali di 114 Paesi del mondo, ha affermato la propria posizione contraria all’eutanasia e al suicidio assistito nel documento conclusivo della assemblea annuale svoltasi a Tbilisi in Georgia: "Nessun medico dovrebbe essere forzato a prendere parte a procedure di eutanasia o suicidio assistito, né essere obbligato a prendere decisioni di rinvio a tal fine".
Un accenno finale al quadro europeo.
La CEDU, con varie pronunce, ha ammesso la possibilità di inquadrare le decisioni di fine vita nell’ambito dell’art. 8, che garantisce all’individuo il godimento dei diritti legati all’autonomia personale e la protegge da interferenze statali, che non siano previste per legge, perseguano uno scopo legittimo e siano necessarie in una società democratica.
In sostanza, non sono le libertà personali, ma le rispettive limitazioni a dover essere giustificate. La regola di fondo è il rispetto della libera scelta della persona sulla propria esistenza. Lo Stato può imporre obblighi e divieti per tutelare gli interessi della collettività, di terzi o della stessa persona, ma deve giustificare questa “interferenza”.
L’interpretazione evolutiva dell’art. 8 ha determinato la graduale inclusione del “diritto di vivere nel modo più corrispondente alle proprie inclinazioni”, tra cui la libertà “di scegliere come e quando porre fine alla propria vita”.
La CEDU ha tuttavia preso atto che vi è grande discrepanza di posizioni tra gli Stati europei (alcuni non hanno alcuna disciplina, altri prevedono solo il suicidio assistito, altri ancora sia il suicidio assistito, sia l’eutanasia) e comunque rimette alla legislazione interna la scelta di adottare la relativa disciplina ed il suo contenuto.