Il codice deontologico dei medici, all’art. 16, vieta di effettuare “procedure diagnostiche ed interventi terapeutici clinicamente inappropriati ed eticamente non proporzionati, dai quali non ci si possa fondatamente attendere un effettivo beneficio per la salute e/o un miglioramento della qualità della vita”.
A tale principio etico è stata sempre attribuita valenza generale: i concetti di appropriatezza/non appropriatezza e/o di proporzionalità/non proporzionalità sul piano deontologico devono, invero, improntare sempre e comunque l’agire medico, non solo nelle situazioni di fine vita.
Non sono considerate appropriate le procedure diagnostiche e gli interventi terapeutici da cui non ci si può attendere un effettivo beneficio, ovvero una ricaduta positiva sulla salute del paziente. Tali sono, ad esempio, gli esami diagnostici (magari anche invasivi) inutili/inefficaci: all’esito dei quali – e a prescindere dal loro risultato – non sarebbe comunque possibile per il medico influire in senso migliorativo sulle condizioni psico-fisiche del paziente.
Non sono poi deontologicamente proporzionati gli interventi diagnostici/terapeutici quando il giudizio di bilanciamento tra mezzi e scopi dell’intervento terapeutico dà esito negativo: quando cioè il potenziale beneficio sulla salute o le possibilità di sopravvivenza non giustificano l’aumento della sofferenza o eventuali altri pregiudizi psico-fisici connessi inevitabilmente al trattamento. Va detto che il giudizio di proporzionalità (a differenza dell’appropriatezza) è solo in parte medico (proporzionalità oggettiva): il bilanciamento ultimo tra costi e benefici del trattamento appartiene infatti al paziente (proporzionalità soggettiva).
In entrambi i casi si tratta di un giudizio di valore che è rimesso in gran parte al medico e che dovrà basarsi su dati quanto più oggettivi inerenti l’ars medica.
Il punto è giuridicamente di non poca rilevanza.
Infatti l’art. 1, comma sesto, della l. n. 219/2017 stabilisce che il paziente non può chiedere trattamenti sanitari contrari alle norme di legge.
La valutazione di appropriatezza (e in parte come detto di proporzionalità) inerisce al sapere medico e si pone, quindi, al di là del campo di azione del consenso/dissenso del paziente: il malato può accettare o rifiutare un trattamento, ma questo sarà stato preventivamente vagliato e valutato dal medico in termini di appropriatezza/proporzionalità oggettiva. In assenza di tali presupposti il medico dovrà astenersi dal trattamento, né il paziente potrà pretenderlo.
Il principio di divieto di eccesso terapeutico legittima quindi un’omissione, un’astensione del medico dal suo “dovere” di cura.
La l. n. 219/2017 ha scelto, proprio per questo, di dare all’eccesso terapeutico, comunemente – ma impropriamente – definito “accanimento terapeutico”, una portata più ristretta. O meglio lo ha espressamente normato solo per le situazioni di fine vita.
Il secondo comma dell’art. 2 prevede che “nei casi di paziente con prognosi infausta a breve termine o di imminenza di morte, il medico deve astenersi da ogni ostinazione irragionevole nella somministrazione delle cure e dal ricorso a trattamenti inutili o sproporzionati”. Anche in questo caso, il precetto è diretto al medico perché le valutazioni richieste dalla norma costituiscono applicazione ed esercizio delle sue competenze scientifiche e professionali.
Le espressioni “prognosi infausta a breve termine” ed “imminenza di morte”, lette nel loro complesso, rendono chiara l’intenzione del legislatore: si tratta di un paziente affetto da una malattia non curabile, di cui si preveda il decesso imminente o comunque entro breve lasso temporale.
Le condotte vietate sono due: l’ostinazione irragionevole nella somministrazione delle cure e il ricorso a trattamenti inutili o sproporzionati.
Occorre precisare che queste condotte non concretano un’ipotesi di “eutanasia passiva”, che si attua attraverso un’omissione di cura/trattamento da cui consegue come effetto direttamente voluto la morte del paziente.
Sul piano soggettivo l’eutanasia passiva è caratterizzata dalla richiesta del paziente e dall’intenzione (che guida l’atto medico) di provocare la morte immediata. Il malato quindi avrebbe ancora delle possibilità di sopravvivenza (nel permanere dei trattamenti), ma la sua volontà è quella di anticipare il “quando” della morte.
L’eccesso terapeutico, invece, attiene a comportamenti che sono, per definizione, inutili e quindi inidonei ad influire sulla salute del paziente. Tuttavia, a fronte di tale inutilità potrebbero aumentare la sofferenza o altra sintomatologia del malato, aggravandone la qualità di vita; per questo sono vietati. In questo caso la morte del paziente interviene secondo il naturale decorso delle sue condizioni cliniche e non è, in ogni caso, l’effetto dell’astensione del medico.
La norma in commento si riferisce, pertanto, al paziente che ha iniziato il “processo del morire”, senza che l’intervento medico possa più sortire un effetto di guarigione e/o di cura terapeutica. Una situazione in cui, quindi, la morte si presenta come prossima ed inevitabile.
Finché, al contrario, sussiste una possibilità di trattamento, permane intatto il dovere del medico di somministrare ogni intervento possibile, utile ed efficace, con il limite del rifiuto consapevole del paziente. Solo in quest’ultimo caso l’astensione del medico è scriminata dalla legge (art. 1, comma sesto, parte prima).
Di fronte al paziente terminale è vietato, invece, al medico effettuare trattamenti inutili, inefficaci ed inidonei a determinare un effetto positivo sulla salute del malato. Se un esame diagnostico o un trattamento non serve, non va somministrato. E il parametro non è il possibile prolungamento della vita, perché si tratta di una persona morente, ma la sua “salute”, intesa in senso ampio, come assenza di dolore e di sintomi refrattari che creino sofferenza evitabile.
La “sproporzione” implica, come detto, sempre un giudizio comparativo fra potenziali benefici e rischi di pregiudizio psico-fisico: la fragilità del corpo e della psiche di un morente richiedono attenzione e senso di equilibrio.
La dignità dell’uomo che muore deve, quindi, essere anzitutto salvaguardata dal medico, dal suo giudizio tecnico di adeguata ponderazione tra rischi e benefici: una breve sopravvivenza a costo di grandi sofferenze, magari poco sopportabili, non è ammessa sul piano tecnico medico, ancor prima che sul piano umano e soggettivo.
Con una precisazione: non solo è vietato somministrare un singolo trattamento inutile e/o sproporzionato, ma è vietato somministrare cure con “ostinazione irragionevole”. È quindi vietato proseguire un progetto di cura anche se i singoli trattamenti possono, di per sé, essere non futili, se nel complesso possono sortire effetti pregiudizievoli. Anche qui la condotta del medico è omissiva: si tratta di interrompere ciò che si è iniziato, perché non è mai consentito al medico cagionare al malato più danni che benefici.
Il divieto di eccesso terapeutico non riguarda mai, ovviamente, la somministrazione delle cure palliative, tese ad alleviare il dolore e le sofferenze del paziente morente. Queste cure sono sempre ammesse, e comprendono anche la sedazione palliativa profonda (con il consenso dell’interessato).
Fermo sempre il diritto del malato consapevole (o in presenza di DAT, se inconsapevole) di rifiutare diagnosi o trattamenti o cure ritenuti utili e appropriati dal medico, ma che da lui non siano, per sue soggettive motivazioni, considerati accettabili e proporzionati.
Chiaro è il dettato dell’art. 39 del codice deontologico medico: “In caso di malattie a prognosi sicuramente infausta o pervenute alla fase terminale, il medico deve improntare la sua opera ad atti e comportamenti idonei a risparmiare inutili sofferenze psicofisiche e fornendo al malato i trattamenti appropriati a tutela, per quanto possibile, della qualità di vita e della dignità della persona. In caso di compromissione dello stato di coscienza, il medico deve proseguire nella terapia di sostegno vitale finché ritenuta ragionevolmente utile evitando ogni forma di accanimento terapeutico”.
Nello stesso senso, l’art. 25 del codice deontologico dell’infermiere “l’infermiere tutela la volontà della persona assistita di porre dei limiti agli interventi che ritiene non siano proporzionati alla sua condizione clinica o coerenti con la concezione di qualità della vita, espressa anche in forma anticipata dalla persona stessa”.