Gli ultimi decenni si sono caratterizzati per una profonda trasformazione delle pratiche di cura, con il progressivo approfondimento delle riflessioni sull’assistenza e sui percorsi di continuità terapeutica legati all’inguaribilità terminale e alle cure palliative, che dal 2010 sono disciplinate da una specifica legge.
Le cure palliative non guariscono, ma permettono di pensare al percorso verso la morte come ad un territorio in cui precarietà e fragilità vengono accolte e accompagnate mantenendo una qualità di vita.
L’art. 2 della l. n. 38/2010 definisce le cure palliative come “l'insieme degli interventi terapeutici, diagnostici e assistenziali, rivolti sia alla persona malata sia al suo nucleo familiare, finalizzati alla cura attiva e totale dei pazienti la cui malattia di base, caratterizzata da un'inarrestabile evoluzione e da una prognosi infausta, non risponde più a trattamenti specifici”.
La parola palliativo deriva dalla parola latina pallium che significa “mantello, protezione”.
Il fine è quindi “assicurare il rispetto della dignità e dell'autonomia della persona umana, il bisogno di salute, l'equità nell'accesso all'assistenza, la qualità delle cure e la loro appropriatezza riguardo alle specifiche esigenze” (art. 1, comma 2).
Oggi l’approccio palliativo tende ad essere sempre più anticipato nelle malattie cronico-degenerative ad esito infausto, anche se il loro campo di applicazione principale resta la “fase terminale della vita”: il momento nel quale la malattia non risponde più alle terapie che hanno come scopo la guarigione.
Attraversato il confine del “limite alle cure” nel senso delineato nelle premesse di questo lavoro, continuare a somministrare farmaci diretti alla cura della malattia risulta dannoso, perché gli effetti collaterali non sono più bilanciati da alcuna prospettiva di utilità; è una fase caratterizzata da una progressiva perdita di autonomia della persona, dal manifestarsi di disturbi (sintomi) sia fisici, come il dolore, che psichici.
L’attenzione e le energie dei curanti devono quindi essere rivolte al controllo del dolore e degli altri disturbi, dei problemi psicologici, sociali e spirituali del paziente.
Lo scopo delle cure palliative non è mai quello di accelerare o di ritardare la morte, ma di preservare al malato terminale la migliore qualità della vita possibile fino alla fine.
Sono espressione di un ambito medico molto dinamico (perché in continua trasformazione grazie ai progressi medico-scientifici e dell’innovazione biotecnologica) e trasversale, della necessaria sinergia di differenti specialità (dalla medicina interna all’oncologia) e di diverse professionalità (dal palliativista allo psicologo), integrando anche il volontariato e le varie risorse attingibili dalla società civile, mediante le forme organizzate del terzo settore.
È poi un campo che nella pratica sta sperimentando percorsi di cura ed assistenza articolati tra vari servizi, gruppi professionali e territori: un agire collaborativo che è strumento efficace e virtuosa pratica sociale per il clima di serenità ed efficienza che crea attorno al paziente, sfruttando la dimensione emotiva positiva collegata al lavorare insieme.
Il dolore, infatti, si articola in plurime dimensioni: non solo la componente neurosensoriale ma anche quella sociale e simbolica. Lo sforzo culturale è quello di superare lo stereotipo delle cure palliative come “anticamera della morte”, attribuendo loro nuovi significati con valenza positiva per la persona e per il suo mondo relazionale.
Le cure palliative sono state definite dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) come "un approccio che migliora la qualità della vita dei malati e delle loro famiglie che si trovano ad affrontare problematiche associate a malattie inguaribili, attraverso la prevenzione e il sollievo della sofferenza, per mezzo di un’identificazione precoce e di un ottimale trattamento del dolore e di altre problematiche di natura fisica, psicologica, sociale e spirituale".
Il codice di deontologia medica, all’art. 20 ultimo comma, precisa che “il medico non può abbandonare il malato ritenuto inguaribile, ma deve continuare ad assisterlo anche al solo fine di lenirne la sofferenza fisica e psichica” e, all’art. 16, che “il controllo efficace del dolore si configura in ogni condizione clinica come trattamento appropriato e proporzionato”.
L’insieme di queste fonti consente di individuare alcuni approdi condivisi:
- l’affermazione del diritto alla vita e alla sua tutela e l’identificazione della morte come un evento naturale;
- l’affermazione che le cure palliative non accelerano, né ritardano la morte, e nulla hanno quindi a che vedere con qualsiasi forma di eccesso terapeutico, di suicidio assistito o di eutanasia;
- l’affermazione che il fine delle cure palliative è il sollievo dal dolore e dagli altri disturbi (sintomi), per fornire alla persona malata la migliore qualità di vita, nel rispetto della sua volontà, accompagnandola verso una morte dignitosa.
- la previsione di un approccio integrato che comprende aspetti sanitari, aspetti psicologici, sociali e spirituali dell’assistenza al paziente;
- l’inclusione di un sistema di supporto alla famiglia sia durante le fasi della malattia, sia durante il lutto;
- l’impiego precoce delle cure palliative nella malattia, anche in combinazione con le misure che tendono a prolungare la vita come, per esempio, la chemioterapia e la radioterapia.
- il rivolgersi principalmente ai malati che sono all’esito di una malattia cronica ed evolutiva (malattie oncologiche, neurologiche, respiratorie e cardiologiche).
Le cure palliative non possono prescindere da una terapia del dolore, che fra tutti i sintomi è quello che più mina l'integrità fisica e psichica del malato e che più angoscia e preoccupa sia lui che i familiari, con un notevole impatto sulla qualità di vita.
Per il controllo del dolore vengono utilizzati metodi farmacologici e non farmacologici (di supporto, psicologici, cognitivi, comportamentali, agopuntura, massaggio, fisioterapia, terapia occupazionale, meditazione, terapie artistiche, musicoterapia ecc.). Spesso i palliativisti sottolineano la necessità professionale di essere predisposti all’immaginazione e alla contaminazione per indagare e varcare frontiere sempre nuove nella strada del sollievo della sofferenza.
La l. n. 38/2010 (art. 7, comma 1) ha introdotto l’obbligo generale di riportare all'interno della cartella clinica la rilevazione del dolore: devono essere riportate le caratteristiche del dolore rilevato e della sua evoluzione nel corso del ricovero, la tecnica antalgica e i farmaci utilizzati, i relativi dosaggi e il risultato antalgico conseguito. Questo strumento diviene di particolare rilevanza nel fine vita.
La legge ha anche istituito la Rete di cure palliative: un’aggregazione funzionale ed integrata delle attività di cure palliative erogate in ospedale, in hospice, a domicilio e in altre strutture residenziali, in un ambito territoriale definito a livello regionale; ma anche le strutture residenziali per anziani o per le persone con disabiltà devono garantire le cure palliative ai propri ospiti, anche avvalendosi delle Unità di Cure Palliative Domiciliari territorialmente competenti.
Le cure palliative possono, infatti, essere erogate al domicilio del malato: anche in questo caso sono costituite da prestazioni professionali di tipo medico, infermieristico, riabilitativo, sociale e psicologico, da assistenza farmaceutica e accertamenti diagnostici.
Ovviamente per poter essere efficacemente erogate a domicilio le cure palliative richiedono un livello di complessità ed intensività compatibile con l’ambiente domestico, la disponibilità della famiglia a collaborare e quindi un ambiente abitativo e familiare adatto. Prevedono la disponibilità medica nelle 24 ore e vengono erogate con interventi programmati ed articolati sui sette giorni, da una squadra (équipe) di professionisti esperti delle Unità di Cure Palliative (UCP) in collaborazione con il medico di medicina generale.
Un accenno va fatto, per completezza, agli hospice. L’hospice è una struttura d’accoglienza e ricovero finalizzata a offrire le migliori cure palliative ai malati terminali e ai loro familiari, qualora non possano essere effettuate a domicilio; un luogo nel quale la persona viene accompagnata nelle ultime fasi della vita con un adeguato sostegno medico, psicologico e spirituale affinché le viva con dignità nel modo meno traumatico e doloroso possibile. All’interno di queste strutture operano diversi professionisti, che lavorano in equipe: medico, psicologo, infermiere, assistente sociale, assistente spirituale, assistente occupazionale e personale volontario, tutti con il delicato compito di ascoltare e supportare per cogliere e accogliere ogni aspettativa, desiderio e speranza del malato e della sua famiglia.
Le cure palliative per espressa disposizione di legge sono sempre gratuite, ma a distanza di quasi 10 anni dall’entrata in vigore della legge non sono erogate in modo efficace, né uguale su tutto il territorio nazionale, anche per il deficit di formazione delle figure professionali e di informazione ai cittadini.
Nel dibattito sull’“aiuto medico a morire” (suicidio assistito e eutanasia) si sottolinea un aspetto che pare particolarmente rilevante: perché si possa parlare di libertà di scelta del paziente, le cure palliative devono essere un’opzione realmente disponibile, in tutti i territori, per il controllo delle sofferenze globali (fisiche, psicologiche, sociali, spirituali, esistenziali).
È quindi urgente promuovere azioni di comunicazione e sensibilizzazione sulle cure palliative nei confronti della cittadinanza; promuovere percorsi di formazione continua per gli operatori sanitari e attuare i percorsi accademici sia nella formazione pre-laurea che in quella post-laurea.
Il paziente rifugge la sofferenza: quindi perché qualsiasi opzione di fine vita sia tale (quindi un ampliamento di diritti e non una diminutio) è anzitutto necessario che il paziente sia libero dal dolore.
Nell’esperienza clinica la sedazione palliativa, anche profonda, può rappresentare un’opzione alternativa per molte condizioni in cui i pazienti potrebbero chiedere un’anticipazione della morte: in un appropriato sistema di cure palliative le persone che chiedono di anticipare la morte sono infatti molto poche.
Ma vi sono casi in cui il rifiuto di continuare a vivere è legato a condizioni di malattia (non necessariamente in fase terminale ma che comportino gravissime disabilità), che sono sentite dalla persona malata come non dignitose e non coerenti con il proprio concetto di vita e di vissuto.